tra l’osso e la cartilagine. tra il dente e la radice.
in quei piccoli spazi fatti di buio, di grigio assenza.
nella camera iperbarica che non ti ho saputo costruire, dove l’aria non ti consuma, dove il sole non ti invecchia. tra i polpastrelli e la carne, dove la pelle sembra trasparente. negli accordi complicati, quelli che non capisco, di cui non conosco le posizioni, di cui non so il nome, quelli di cui ti avrei chiesto.
nelle nuove abitudini, in quelle che sembrano secolari ma che ho rubato dai tuoi cassetti. in quei decimi di secondo che intercorrono tra un respiro nuovo ed uno che si esaurisce. nelle apnee di ottobre, nelle decorazioni di dicembre, nei silenzi intelligenti e in quelli imposti. nelle scuse che ti dovevo, in quelle che ho inventato perché non c’era niente di cui scusarsi. ma ero sincero, amore mio, perché ho saccheggiato le tue stanze, ho fatto incetta delle perplessità che hai quando dormi poco, e perché “amore” non ti ho mai chiamato.
così ti ritrovo lì, tra l’osso e la cartilagine, tra il dente e la radice, in quei piccoli spazi fatti di buio, di grigio assenza, questa notte e molte altre ancora.
e torno a parlarti, con i fonemi più dolci che conosco, con tutta la paura con cui mi copro le spalle, ricordando strette di gradini e cotone.
lì, sperando di farti sorridere, nell’abbraccio ultimo.

Il sudore sulle tue tempie parla chiaro. Tutte quelle parole, sbagliate e immature, premono sui molari e non puoi continuare a digrignare i denti. Non solo la mandibola, ti fanno male tutti i muscoli del collo, tutte le vene bluincertezza che si nascondevano sotto la poca melanina. Io te lo devo chiedere.
Perché hai smesso di scrivere? Non sapevi più cosa dire? Volevi nuovi topic?
Eccone uno. La voce di tua mamma che ti commuove, che ti spinge la lingua sul palato in quel moto di tenerezza che i bambini conoscono bene.
Se non è uno spunto questo…
Tua madre e quelle telefonate.
“Pronto?”
E così ripensi a quel rettangolo di legno che si è portato via un fratello, padre, zio. Uno scrigno di zinco per 80 kg di ricordi. Ma non è lui a rompere le dighe, è solo la voce di tua mamma, che al telefono non sa mentire, che nell’abbraccio sembra un uccellino trovato in una grondaia, con ossa fragili e piume troppo morbide.
Vuoi un altro topic? Parla di quella manciata di canzoni che non sai finire.
Ma tu, realmente, le vuoi portare a termine? Perché a volte succede che le cose si rimandino per mancanza di volontà e di interesse. Credimi, non è una domanda retorica, a me succede, magari per te è diverso.
Però se vuoi un consiglio, non lasciarle a metà, incompiute. Per quel che ho potuto ascoltare sembravano piacevoli, da accarezzare ancora qualche secondo, e guarda che non c’è bisogno che siano capolavori, nessuno ti chiede la cappella Sistina. Possono essere dolci, piccole, brevi, come un gelato, un pomeriggio, come una doccia fresca.
Non ti basta?  Altro topic?
Scrivi del viaggio che farai, dell’emozione che senti adesso che San Francisco è ancora lontana, del caldo del Nevada e dei tuoi capelli biondi sotto cappelli texani di dubbio gusto. Immaginalo quel viaggio, gustalo prima dell’atterraggio, inventalo.
Apri gli occhi, o chiudili, e usa le dita.
Non hai dimenticato la bellezza della descrizione, l’hai solo chiusa a chiave nella stanza in fondo al corridoio.
Apro?

Dell’autunno non so parlare. A me quell’arancione blocca la gola, tiene in ostaggio le tonsille e mi ruba gemiti ed esternazioni.
Ma stavo bene. Mi correggo: stavo meglio. Era ora di dirselo. Quantomeno sussurrarselo. Lui, il ragazzo dall’armatura sottile di bicordi inesperti, se ne stava in silenzio, tra latte di riso e sorrisi mascherati da sorrisi. Il giorno in cui ho ripreso a camminare non mi sono chiesto se avessi muscoli atrofizzati o tendini stanchi.
E’ di venerdì temerari che si nutrono i racconti, e di camminare avevo davvero bisogno.
Circolazione sanguigna, staffette di ossigeno e anidride carbonica, sintesi clorofilliana dei tessuti. A dire il vero non furono chilometri, metri o centimetri faticosi. Furono discese sorprendenti, ma non per questo senza qualche affanno. Mi era stato proibito di guardare indietro.
Orfeo si era raccomandato, e lui ne sapeva qualcosa.
Storie diverse le nostre, eppure sentivo di doverlo ascoltare.
Non mi voltai, e non perché avessi dimenticato, né perché sentissi che fosse sbagliato farlo. Mi hanno cresciuto a pane e ripensamenti, perché insieme al latte sono loro che ti fortificano. Le decisioni a testa alta e voce ferma fanno curriculum, impressionano le masse, ma sono libri scontati, commerciali, fanno il tutto esaurito come le chiese la domenica. Invece i ripensamenti fanno di te un essere pensante, qualcuno che delle proprie scelte ama le rughe e non si spaventa al primo reumatismo.
Non mi voltai questa volta.
Avevo con me scarpe più comode, comprate controvoglia, e avevo cominciato ad ascoltare. Quello sì che era stato un errore. Essermi tappato le orecchie per l’ennesima estate. Un ascolto mono per settimane, che poi si erano trasformate in mesi e successivamente in stagioni. Tolte le mani, ecco la magia dello stereo.
Left. Right.
E scopri una linea di pianoforte che non sapevi, suoni panpottati che innalzano lo spirito, che guidano un movimento e accarezzano i nervi.
Quella notte l’arancione ancora non si vedeva, eppure era già lì, annunciato e commentato dai più. Avevo ancora la gola aperta, mandavo giù saliva senza problemi, respiravo a metà polmoni (questa è un’altra storia), ma respiravo, e i rami da scacciare erano sempre meno. Giusto piccoli arbusti, così piccoli che cominciavano ad accarezzare pelle e cotone. Arrivai da lui senza intenzioni. Nessuna tesi, nessun teorema, nessuna convincente spiegazione. Pensavo che aver attraversato quella strada fosse sufficiente.
Spero di non essermi sbagliato.
Arrivai lì senza chiedere permesso, perché la porta era aperta. Ancora adesso c’è chi dice che la mia fu solo fortuna, altri ripetono arroganti che di colori non è mai morto nessuno. Io tra me e me rispondevo “di colori siamo morti tutti, prima o poi”, ma effettivamente quel giorno non si vide nessun boia, proiettile, ghigliottina o veleno endovena.
Non saprei dire se fosse merito di quelle tanto osteggiate scarpe nuove o della cioccolata alle nocciole.
Noi due, di quanto tempo saremmo rimasti lì ad osservare sornioni una stagione che di solito mangia spade e corazze, non parlammo.
Ma ci furono albe da scappare e gradini su cui salire.
E finalmente torno ad ascoltare.
Left. Right.
Del resto, frankly, my dear, I don’t give a damn.

– Hai visto lo zaino?

– Quello verde?

– Sì. Non lo trovo mai. Secondo me è colpa del colore. Il verde si mimetizza, è un po’ old school.

– Beh, se fossimo in Vietnam e cercassimo di nasconderci da…

– Eccolo!

– A che ti serve?

– E’ il primo settembre, inizia l’anno! Sai che ho sempre diviso gli anni in modalità scolastica, no? E a scuola inizia tutto con uno zaino. E un diario, ovviamente.

– No.

– Cosa no?  Dai, ti ho già parlato di Giugno che chiude tutto, dell’Estate che è una cosa a sé, e poi di Settembre che è l’inizio. Senti, io l’anno lo divido così, ma che vuoi?

– Sì, questo l’ho capito, anzi, lo so. Mi riferivo alla data. Oggi non è il primo Settembre.

– Ma che dici? Certo che lo è.

– Hai visto un calendario o controllato su un giornale, internet et similia?

– No, ma ieri era il 31 per cui oggi inizia Settembre.

– Stai insistendo su un punto sbagliato.

– Senti, questa conversazione è surreale. Prendo lo zaino e…

– Tieni.

– La Repubblica?

– Sì, guarda in alto a destra.

– Ancora con questa stor…

– Ci credi adesso?

– “32 Agosto 2010”.

– Eh sì.

– Ma…

– Ora puoi posare lo zaino e lasciare che si mimetizzi tra le foglie vietnamite.

– E’ uno scherzo? Dimmi che è uno scherzo.

– E cosa pensi che abbia fatto? Che abbia photoshoppato e stampato una copia di un quotidiano apposta per prenderti in giro?

– Ma il 32 non esiste!

– Girava questa voce, vero?

– Una voce? Secoli di mesi con 31, 30, 29 o al massimo 28 giorni, avrebbero fatto credere a chiunque che il 32esimo non esiste!

– E invece eccolo qua.

– E cosa ci faccio con questo zaino?

– Immagino ti sarà utile, prima o poi. Semplicemente non oggi.

– E’ che mi ero preparato. Il primo Settembre arriva in fretta e se non sei pronto l’anno inizia senza di te.

– Stai per dirmi la solita solfa, vero? Quella del “nessuno vuole arrivare dopo, a film già iniziato, a metà del discorso”, bla bla bla. Senti, non è il primo Settembre, dov’è la tragedia?

– Mhm… ok. 24 ore effettivamente passano in fretta, un giorno in più non cambierà le cose.

– Le cambierà invece.

– Ah.

– Un po’ lo sospettavi, dì la verità.

– Credo di averlo capito subito, anche se è una cosa che so da neanche un minuto.

– Fa parte di quelle verità che coviamo e non verbalizziamo. Siamo galline che nascondono le uova. Chissà perchè poi.

– E che faccio nel frattempo? Che si fa il 32 di Agosto?

– Usalo! Usa questo giorno che non c’era e guida un po’, saluta gente, butta un po’ di scatoloni, fatti una sega, scatta una foto… davvero te lo devo dire io cosa fare?

– Forse dovrei uscire, vedere com’è camminare in un giorno che finora non è mai esistito.

– E allora fallo, esci.

– Vieni con me!

– No, grazie. So già com’è.

– Se non è mai esistito come fai a saperlo?

– Diciamo che nel mio caso non era il 32, ma ho già vissuto questo giorno.

– E il tuo com’è stato?

– Il mio mi ha mangiato vivo. Ho provato a camminare fuori, ma il sole di mezzogiorno picchia allo stesso modo e gli ausiliari del traffico non smettono di fare multe.
E’ tutto esattamente uguale, sei tu che non lo sei. Per cui ora alzati, fai quello che devi fare, sporcati pure le mani e la bocca di banalità, e poi vai a dormire.

– Sì, ma non è che poi mi sveglio e tu mi passi un giornale datato 33 Agosto, vero?!

– No, no! Tranquillo. Dopo il 32 lo spettacolo finisce.

– Almeno questo.

– Già.

– Ok. Allora io forse esco. Sarà come dici tu, ma io il sole di mezzogiorno del 32 ho voglia di vederlo lo stesso.

– Fai bene. Esci.

– Grazie.

– E di che?

– Non so esattamente di cosa, ma improvvisamente ho voglia di ringraziarti.

– Non ringraziarmi. Quando torni non mi troverai. Ti sembrerà strano e mi odierai per un po’, ma fa parte del bello e dello schifo di tutto questo. Del 32 e di queste minchiate di metafore che usiamo per uscirne vivi: io che sono una figura X a metà tra te, 1/4 di lui e qualcosa che eri un tempo; tu che sei l’ingenuo alter ego di chi scrive; il Vietnam che sembra un riferimento bellico ma che è soprattutto un paese scritto a caso, e via dicendo. Insomma, tutte cose ovvie che fanno parte di questo oliatissimo meccanismo mi(ti)dicononmi(ti)dico. E’ tutto sgamatissimo, ma se è utile a chi di tutti questi pensieri non sa che farne, lasciamo che sia.
Tu ora esci, chiuditi la porta alle spalle e pensa al sole di mezzogiorno. Durante la tua passeggiata il 32 farà il suo lavoro. Tornerai e tanti piccoli pezzettini di te, compreso me, imploderanno come cellule da laboratorio, e finiremo altrove, in un posto imprecisato che non ci è dato sapere. Poi, quando tu non avrai più voglia di cercare le differenze tra le ombre dei marciapiedi e non piagnucolerai più, questo giorno sarà passato. A quel punto prendi lo zaino, metafore nuove che non prevedano calendari, e regalami un piccolo pensiero. Anche un vaffanculo.

– Sarà il primo Settembre. Vero?

– Sì, e ora vai. E’ mezzogiorno in punto.